Tassi alti: quanto può resistere il debito italiano?


L’inflazione alleggerisce il rapporto debito-Pil, aiutando i conti pubblici, ma impoverisce i cittadini. L’Italia resta alle prese con i suoi storici problemi di bassa crescita e scarsa produttività. Dopo la crisi delle banche americane e del Credit Suisse, le banche centrali sono a un bivio: continuare la stretta anti-inflazione o mettere in pausa i rialzi?

Debito record al 146,4% del Pil, deficit al 7,9% e pressione fiscale in crescita al 43,9%. Non sono particolarmente incoraggianti le recenti previsioni del Centro Studi di Confindustria sui dati macro di quest’anno per l’Italia: il debito continua a crescere rispetto al 144,7% dell’anno scorso, e nel 2024 proseguirà la sua corsa arrivando al 147,9%, con la pressione fiscale a sua volta in aumento al 44,7%. Il tutto in un contesto di stretta monetaria contro l’inflazione, con stime che parlano di 2-2,4 miliardi di euro di maggior spesa per interessi l’anno per ogni mezzo punto di aumento dei tassi (la Bce in meno di un anno li ha aumentati di tre punti e mezzo, e non è finita). Quanto potrà resistere l’Italia in un contesto di tassi alti, inflazione elevata e bassa crescita?

 

Se la crescita nominale corre più dei tassi

«Il nostro Paese può resistere fino a quando la crescita nominale (crescita reale più inflazione) resta più alta dei tassi - spiega Alessandro Tentori, Chief Investment Officer di AXA IM Italia - . Il problema si presenta per esempio quando hai un’inflazione del 6% e una crescita negativa del 10%, quindi una discesa in termini reali del 4%. Nel 2012 l’Italia si è ritrovata in recessione e con tassi alti, per la crisi di sfiducia nel nostro Paese e l’aumento verticale dello spread, anche se l’inflazione era bassa: il risultato fu una raffica di downgrade delle agenzie di rating e un lungo Purgatorio».

In questo momento, quindi, il carovita sta almeno in parte “salvando” i conti pubblici italiani: sì perché se oggi per esempio l’inflazione fosse a zero, la crescita si attestasse all’1% ma i rendimenti del titoli di Stato decennali (i BTp) restassero al 4%, il rapporto debito-Pil aumenterebbe di tre punti percentuali l’anno.

 

L’effetto carovita sul rapporto debito/Pil

Spieghiamolo anche con altre parole. Nel rapporto debito/Pil, il prodotto interno lordo al denominatore non è il Pil reale (ossia quello depurato dall’inflazione), bensì il Pil nominale, che tiene in considerazione il carovita. Quindi, se aumenta l’inflazione, allora cresce il Pil nominale e, come conseguenza dell’effetto denominatore, scende il rapporto debito/Pil.

 

Fonte: Commissione europea, Previsioni economiche invernali 2023 (13 febbraio 2023)

 

L’inflazione impoverisce i cittadini

Tutto bene dunque? Nossignore. «Quando l’inflazione è alta i cittadini perdono potere d’acquisto - continua Tentori - anche se si abbassa nello stesso tempo il debito procapite. Un’altra strada più “sana” per abbattere il debito è quella della crescita in termini reali, ma purtroppo questo è un binario sul quale il vagone Italia arranca. Afflitto da un debito sempre più alto, da una crescita anemica e ora dal ritorno dell’inflazione, il nostro Paese vede impoverirsi la classe medio-bassa. E meno male che possiede una moneta forte come l’euro, altrimenti rischierebbe un destino sudamericano, con una valuta sempre più debole».

Detto in altri termini, il carovita mantiene sotto controllo il rapporto debito/Pil (che comunque secondo le stime di Confindustria e di altri istituti di ricerca è destinato a crescere) ma impoverisce i cittadini. Alleggerisce il debito pubblico ma allo stesso tempo pure la ricchezza privata degli italiani.

 

Il nodo della produttività

«Anche sul fronte della produttività del lavoro, misurata con il metro dell’output per ore lavorate, secondo i dati del Conference Board l’Italia è il vagone di coda delle economie avanzate - continua l’economista di AXA IM - : si ritrova allo stesso livello del dicembre del 2000, mentre tutti gli altri Paesi mostrano performance migliori, dalla Germania alla Francia, dagli Stati Uniti al Giappone».

 

Tassi alti, ma per quanto tempo?

Intanto il percorso di stretta monetaria di Fed e Bce resta avvolto dal mistero, in attesa di capire se i recenti problemi di alcune banche (Silicon Valley Bank e Credit Suisse tra tutte) rappresentino solo episodi isolati o il sintomo di un malessere molto più esteso. «Tutti gli scenari restano validi: per esempio, ancora rialzi dei tassi per domare un’inflazione molto coriacea, soprattutto sui generi alimentari o in Europa per le pressioni salariali», puntualizza Tentori.

E’ probabile che si sia vicini a un traguardo almeno temporaneo nei rialzi, ma che i tassi resteranno a livelli alti per un periodo lungo. «Negli Stati Uniti c’è una forte spinta politica contro il caro prezzi, trainata dall’amministrazione Biden, e la Fed che giustamente sceglie di combattere l’inflazione anziché la disoccupazione. Bisogna vedere se per portare a casa il risultato basterà la politica monetaria o sarà necessario anche sincronizzarla con quella fiscale, calibrando bene gli interventi (cosa sempre difficile)».

 

Attenzione a titoli di Stato long term e azioni tech

Investire in questo contesto non è facile. «E’ necessaria cautela su tutti gli asset sensibili ai tassi - conclude l’economista di AXA IM - : attenzione quindi a obbligazionario con scadenze lunghe, in particolare titoli di Stato, ma anche azionario “growth”, a partire dai titoli tecnologici. A livello geografico invece sono ancora da privilegiare gli Stati Uniti, che non presentano i problemi di frammentazione europei».

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