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I tassi a lungo termine e l’evoluzione del debito negli Stati Uniti e in Europa

  • 05 Dicembre 2023 (7 min di lettura)

Se i mercati hanno ragione in merito ai tassi reali a lungo termine dei titoli del Tesoro negli Stati Uniti e dei titoli di Stato in Europa, gli indici di indebitamento aumenteranno per un po’.  Dobbiamo dunque assicurarci che non esplodano. 


Nelle economie avanzate, il tanto decantato (r-g), ovvero la differenza tra il tasso di interesse sul debito pubblico e il tasso di crescita, sembra aver cambiato segno in modo duraturo, o comunque è passato da una cifra decisamente negativa a una cifra più vicina allo zero.

Sebbene gli economisti si aspettassero che il segmento a breve termine della curva dei rendimenti avrebbe riflesso il rialzo dei tassi, necessario per combattere l’inflazione, il brusco irripidimento del segmento a lungo termine della curva negli ultimi mesi ha colto molti di sorpresa. Io sono pronto ad ammettere che non l’avevo previsto (né l’avevano previsto i mercati delle opzioni che, fino a poco tempo fa, indicavano con una probabilità quasi nulla l’eventualità che i tassi a lungo termine raggiungessero i livelli attuali).   

Anche ora che è accaduto, non è chiaro cosa abbia provocato tale aumento dei tassi a lungo termine: forse l’aumento del premio a termine (e in tal caso perché?), l’offerta insolitamente abbondante e la domanda contenuta dovuta alla stretta quantitativa, la riduzione della percentuale di acquirenti di obbligazioni non sensibili al prezzo, una domanda da parte delle famiglie più sostenuta, un maggior potenziale di crescita correlato all’intelligenza artificiale generativa? In realtà non lo sappiamo.

Non è irragionevole, pertanto, concludere che alcuni dei fattori sottostanti alla base del recente aumento sono transitori e che i tassi reali a lungo termine scenderanno.  La maggior parte dei fattori che, secondo gli economisti, hanno contribuito al lungo calo pre-Covid non sembra aver cambiato radicalmente direzione.  Ma il fatto è che i tassi a lungo termine oggi sono alti, i ministri delle finanze devono autofinanziarsi a tassi così elevati e non possono scommettere su una loro riduzione. 


Quando (r-g) è uguale a zero, le dinamiche del rapporto tra debito pubblico e Pil sono chiare: in caso di deficit primario, l’indice di indebitamento aumenta. In caso di avanzo primario, l’indice diminuisce.  A questo punto, quasi tutte le economie avanzate presentano un deficit primario, molte intorno al 2-4%. Pertanto, una volta che il debito corrente sarà stato rifinanziato e l’interesse medio sul debito rifletterà i tassi a lungo termine più elevati, in mancanza di cambiamenti a livello politico, l’indice di indebitamento aumenterà.

In altri termini, per stabilizzare l’indice di indebitamento occorre azzerare il deficit primario.  Per i governi è impossibile farlo rapidamente, per ragioni sia economiche che politiche.  Un consolidamento drastico e immediato sarebbe molto probabilmente catastrofico, sia economicamente poiché scatenerebbe una brusca recessione, sia politicamente poiché aumenterebbe la percentuale di voti a favore dei partiti populisti.

Dunque, con quale rapidità i governi delle economie avanzate possono procedere realisticamente al consolidamento? Alcuni interventi intrapresi a tutela delle imprese e delle famiglie per affrontare le problematiche correlate al Covid-19 e, più recentemente, i forti aumenti del prezzo dell’energia, finiranno. Sarà di aiuto, ma non basterà a colmare il deficit.  Occorre fare di più.


Il periodo di austerity fiscale che ha interessato l’Europa dal 2010 al 2014, che oggi viene considerato in genere come eccessivamente rapido e di ostacolo alla ripresa europea, dovrebbe fungere da monito.  A ciò si aggiunga la spesa necessaria per rafforzare la difesa e incrementare gli investimenti pubblici nel verde.  È evidente che il processo di correzione dev’essere costante ma anche lento.  A partire da un deficit primario del 3%, in assenza di qualche sorpresa positiva, potrebbero volerci circa dieci anni per arrivare al pareggio e stabilizzare il debito.

Raggiungere il consolidamento fiscale in modo sostenibile non sarà impresa facile.  Affinché gli investitori ci credano, e non pretendano uno spread più ampio, serve un piano credibile con provvedimenti specifici, sia sul fronte della spesa che su quello fiscale.  Anche in tale scenario, l’indice di indebitamento aumenterà finché il deficit primario non sarà stato azzerato.   

Tale aumento è inevitabile (a meno che i tassi di interesse a lungo termine non scendano ancora, in tal caso torneremo a una situazione in cui la stabilizzazione del debito consentirà la presenza di un certo deficit primario, e il processo di correzione potrà rallentare o cessare del tutto).  Non è ideale, ma neppure catastrofico.  Ho detto altrove che ci sono i segnali che le economie avanzate sono in grado di sostenere un indice di indebitamento più alto, nella misura in cui non esploda.

Ciò che dobbiamo evitare a tutti i costi è l’esplosione del debito, che avverrebbe nel caso in cui il deficit primario persistesse. Riepilogando, quindi, la soluzione è un piano credibile di riduzione sostenibile del deficit primario, seppur nell’accettazione del fatto che l’indice di indebitamento aumenterà per un po’ per poi stabilizzarsi a un livello più elevato.  Ed è qui che vedo divergere il percorso dell’Unione Europea da quello degli Stati Uniti.

Per l’evoluzione del debito dell’Unione Europea sarà fondamentale il contenuto delle norme fiscali UE riviste nel momento in cui verranno finalmente adottate.  L’argomento in discussione, ovvero la valutazione della sostenibilità del debito attraverso una metodologia comune, pur nel riconoscimento che ogni Paese è diverso, rappresenta un notevole passo avanti rispetto all’eccessiva complicazione delle norme precedenti.  Le nuove regole potrebbero però essere troppo rigide e non essere in grado di consentire la lenta e costante correzione che abbiamo descritto in precedenza. E ciò è fonte di preoccupazione. 


In ogni caso, credo che nei prossimi anni assisteremo al consolidamento fiscale in Europa.  Sarà interessante vedere cosa accadrà ai tassi di interesse europei.  Non è del tutto inverosimile che il consolidamento fiscale, abbinato a una domanda privata costantemente debole, porti alla necessità da parte della Banca Centrale Europea di tagliare i tassi, una volta che avrà vinto la battaglia contro l’inflazione.  Paradossalmente, i tassi elevati di oggi lasciano presagire tassi più bassi in futuro.  In tal caso, le dinamiche del debito migliorerebbero e il processo di adeguamento sarebbe più facile.

La situazione negli Stati Uniti è alquanto diversa, nonché più preoccupante.  I tassi di interesse reali a lungo termine sono più alti rispetto all’Europa e il deficit primario è tra il 4% e il 5%.  Inoltre, l’attuale processo di definizione del budget non funziona. L’indice di indebitamento potrebbe esplodere e appare improbabile che la correzione avvenga senza intoppi.  Per dare il via alla svolta potrebbe essere necessaria una crisi di qualche tipo, per esempio il fallimento di un’asta o spread di credito sui titoli del Tesoro.  Non si possono escludere anche scenari più preoccupanti, per esempio l’elezione di Donald Trump e la conseguente nomina di un Presidente della Federal Reserve disposto a ridurre il debito attraverso l’inflazione. È inutile dire che ciò avrebbe importanti implicazioni, non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero. Dobbiamo sperare per il meglio ma essere anche pronti a prendere in considerazione gli scenari più pessimistici. 

Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di AXA Investment Managers.

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