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La Versione di Iggo

Sei e stop?

  • 19 Novembre 2021 (5 min di lettura)

L’inflazione è il tema caldo del momento tra gli investitori, tuttavia questa settimana ci ha ricordato che il Covid può incidere ancora sulle prospettive macroeconomiche. Le aspettative di rialzo dei tassi di interesse sono state alimentate dall’inflazione, ma probabilmente non c’è motivo di credere che le banche centrali debbano fare più di quanto non sia già stato previsto. Per gli investitori, il reddito fisso continuerà verosimilmente a generare rendimenti reali negativi, a meno che l’esposizione non venga gestita bene e in modo attivo, comprendendo una protezione contro l’inflazione. Sul fronte azionario, la domanda, il potere di determinazione dei prezzi e il limite alla potenziale ascesa degli yield a lungo termine sono tutti fattori positivi. 

 

Pronti a tassi più alti nel 2022

La strategia di investimento da adottare nel 2022 deve tenere certamente conto del potenziale rialzo dei tassi di interesse nel Regno Unito e negli Stati Uniti. È già scontato, se consideriamo che l’inflazione si trova lungo una traiettoria più alta delle previsioni. Non c’è ragione per cui le banche centrali debbano mantenere i tassi di interesse sui livelli della pandemia. È stato fatto molto per uscire dalla crisi e l’economia globale viaggia ora su livelli di attività molto più intensi rispetto al momento della svolta accomodante a inizio 2020.  Qualcuno potrebbe sostenere che i mercati si sono già adattati, gli yield obbligazionari sembrano indicare che la stretta monetaria prevista sarà sufficiente a far scendere l’inflazione nel medio termine, mentre i mercati azionari non credono che la stretta prevista basti a far deragliare un mercato al rialzo, sostenuto da un Pil nominale molto robusto e da utili in crescita. Se questo scenario è corretto, lasciamo che le banche centrali procedano a vele spiegate. Se l’attività economica dovesse subire un nuovo shock dovuto al COVID, probabilmente la previsione era eccessiva.

Inflazione al rialzo ovunque

Alla base della previsione di rialzo dei tassi c’è l’inflazione. Negli Stati Uniti, a febbraio 2021 la variazione dei prezzi al consumo su base annua ha superato la soglia del 2,0%, e da allora è in costante ascesa. L’aumento medio mensile dell’indice dei prezzi al consumo nel 2021 è stato di poco inferiore allo 0,6%, rispetto a poco meno dello 0,2% nel 2019. L’inflazione è salita ovunque. Nel World Economic Outlook di ottobre 2021, il Fondo Monetario Internazionale prevede quest’anno un’inflazione dei prezzi al consumo del 2,8% per le economie avanzate e del 5,5% per le economie in via di sviluppo. Le medie nascondono qualche dato sconvolgente relativo ai singoli Paesi, per esempio il 14,6% per il 2021 e il 16,7% per il 2022 della Turchia. L’America Latina, come regione, l’anno prossimo dovrebbe registrare un’inflazione intorno al 10%, mentre le economie di Africa e Medio Oriente stanno già registrando aumenti dei prezzi a doppia cifra.

Calo prevedibile nel 2022/2023

L’FMI sembra concordare con l’opinione di consensus: l’inflazione scenderà nel corso del 2022 e del 2023.  Lo stesso vale per il mercato obbligazionario. Come ho già scritto, il mercato delle obbligazioni indicizzate all’inflazione continua a prevedere che l’inflazione a lungo termine sarà inferiore ai tassi a breve termine. La curva di break-even è inversa negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Le aspettative sui tassi di interesse a breve termine sono salite negli ultimi mesi poiché l’inflazione ha contraddetto la forward guidance, ma gli yield obbligazionari a lungo termine sono rimasti entro un range di 80 p.b. (per i Treasury decennali), e in questo momento sono inferiori ai massimi annuali. Gli yield sui Bund tedeschi sono rimasti entro un range di 60 p.b. nel 2021 e, tenendo conto che la BCE tra le principali banche centrali (insieme a quella giapponese) è quella che con meno probabilità alzerà i tassi di interesse, gli yield a lungo termine nell’Area Euro restano negativi.

Asset e inflazione

In vista del 2022 gli investitori devono tenere gli occhi puntati su due aspetti. Il primo è l’evoluzione dell’inflazione, il secondo è come proteggere i portafogli nel caso in cui l’inflazione restasse alta, e sembra che resterà su tali livelli per un po’. Finora, il reddito fisso non è riuscito a proteggere adeguatamente il portafoglio dal rialzo dei prezzi. Negli Stati Uniti, l’indice dei prezzi al consumo da dicembre è salito del 5,7%. Un indice standard dei Treasury ad oggi ha registrato un rendimento complessivo del -2,8%. Un indice di obbligazioni societarie investment grade risulta in calo dell’1,3%. Nell’Area Euro, (tutti) i prezzi al consumo sono saliti del 4,1%, ma il rendimento complessivo di un indice di titoli di Stato europeo, da inizio anno, è sceso del 2,2%, quello di un indice standard di obbligazioni societarie in Europa dello 0,5%. Il rendimento reale delle obbligazioni di alta qualità è stato negativo. E la situazione resterà probabilmente tale.

Indicizzati all’inflazione

Hanno fatto eccezione le obbligazioni indicizzate all’inflazione. Il rendimento complessivo degli indici di obbligazioni indicizzate all’inflazione negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’Area Euro quest’anno ha battuto l’inflazione (rispettivamente 6,4%, 7,6% e 6,8%). Nel reddito fisso, questo settore probabilmente resterà l’opzione migliore, le strategie a più breve duration sono quelle più interessanti a fronte dello scenario che mi sembra più probabile per l’inflazione. Potrebbe emergere qualche opportunità di acquistare titoli di Stato, ma più che altro dal punto di vista tattico. La variazione netta degli yield probabilmente sarà positiva nei prossimi dodici mesi, ma la storia ci insegna che non sarà un percorso lineare. A causa dell’offerta limitata e della domanda robusta da parte degli investitori istituzionali in cerca di duration ci saranno periodi in cui gli yield di fatto scenderanno. Se ci fosse qualche segnale per cui la crescita inizia a vacillare, magari per via delle chiusure dovute al COVID, aumenterebbe la probabilità di registrare rendimenti obbligazionari migliori. Una gestione attiva del reddito fisso è preferibile rispetto a un’esposizione passiva a un indice obbligazionario.

Tassi di credito inferiori all’inflazione

Gli investimenti corporate probabilmente continueranno a essere sostenuti dai fondamentali positivi. Gli strumenti di credito finora non hanno compensato l’inflazione, e faticheranno a farlo anche nel primo semestre del 2022. Gli spread restano abbastanza ristretti e il rendimento complessivo rischia di risentire del rialzo degli yield sottostanti, in particolare nelle componenti del mercato del credito di qualità più elevata. Nei mercati emergenti, molto dipenderà dal modo in cui i policymaker affronteranno l’inflazione, che tende a essere più alta per via del peso maggiore di alimentari ed energia negli indici. Un aumento dei tassi di interesse inciderà sui rendimenti in valuta locale, in particolare a fronte del dollaro galoppante.

Utili robusti nonostante l’inflazione al rialzo

Spesso mi chiedo se coloro che parlano così male delle obbligazioni, dell’inflazione e della politica delle banche centrali abbiano azioni in portafoglio. Le azioni in genere hanno fatto meglio dell’inflazione, da molti anni, e quest’anno non è andata diversamente. Il rendimento complessivo dell’indice MSCI World è stato del 25%. La robusta ripresa della domanda finale abbinata agli investimenti in aumento, la spinta verso la sostenibilità in numerosi settori e una maggiore fluidità dei prezzi (che ha consentito a molte aziende di sfruttare il proprio potere negoziale) si sono riflesse sugli utili. Gli utili robusti, i bassi tassi di interesse e la politica monetaria accomodante hanno spinto a investire principalmente in azioni. Anche grazie alle campagne di vaccinazione più efficaci nelle economie sviluppate, la performance è stata migliore nei mercati azionari sviluppati rispetto agli emergenti.

Prospettive ancora positive per l’azionario

Il prossimo anno potrebbe essere meno semplice. La crescita degli utili rallenterà, ma nel complesso la domanda dovrebbe restare robusta. La politica monetaria sarà un po’ meno accomodante. Potremmo assistere a una certa compressione dei margini qualora diventi più difficile trasferire l’aumento dei costi. Nel complesso, però, i rendimenti azionari saranno probabilmente più alti di quelli obbligazionari in un contesto caratterizzato da un’inflazione ancora elevata (che scenderà nel secondo semestre dell’anno).

Transitoria più a lungo

Le prospettive d’investimento dipendono dall’inflazione. L’economia globale continua a risentire della solidità della domanda a fronte di un’offerta aggregata ancora limitata. Il COVID continua a gravare sulle catene di distribuzione, le aziende ci stanno mettendo più tempo del previsto a smaltire gli ordini arretrati e a risolvere i problemi logistici. Speriamo che tale situazione si vada dipanando nel 2022 e che si ritrovi l’equilibrio tra la domanda di merci sopra la media e la domanda di servizi inferiore alla media. Preoccupano però i prezzi elevati degli alimentari e dell’energia, nonché i segnali che in molti Paesi i prezzi immobiliari stiano salendo rapidamente. Ciò che preoccupa veramente è l’andamento dei salari e le aspettative inflazionistiche. È un’esagerazione credere che la spirale salari-prezzi del passato si ripresenti. Non è nella natura delle aziende aumentare i salari ogni anno a fronte del rialzo dell’inflazione. Lo stesso vale per la generosità fiscale, che difficilmente sarà permanente. Lo scenario di rischio per gli investitori è un ciclo economico amplificato ma più breve: inflazione più alta, stretta monetaria più aspra del previsto e, considerati i livelli di debito, un rallentamento della crescita tale da sfociare in una fase di recessione deflazionistica. È uno scenario macroeconomico molto più difficile. Se gli yield obbligazionari salissero ancora, a un certo punto aiuterebbe avere un’esposizione in long duration.

Sei e stop?

L’ultima volta in cui la Federal Reserve intraprese un ciclo di stretta monetaria, nel 2015, l’idea di partenza era che il tasso terminale sarebbe stato del 3,5%. Alla fine del ciclo di stretta, la stima sul tasso terminale era del 3,0%. Oggi la stima migliore è del 2,5%. Nel 2018 la Fed fermò il rialzo dei tassi 50 p.b. al di sotto della sua stima del tasso terminale dell’epoca. Applicando la stessa logica, nell’ipotesi fondamentale che basterebbero meno rialzi per rallentare l’economia, forse possiamo ipotizzare un aumento massimo al 2,0%. Il mercato non ha ancora formulato questa stima, ma ci è vicino. Si prevedono circa sei rialzi, la Fed nel periodo 2015-2018 ne fece nove. La fase di normalizzazione monetaria non dovrebbe essere poi così male. Nello scenario alternativo, la banca centrale commette un grave errore politico e il tasso di interesse neutrale a lungo termine è molto più alto, ciò significa un ciclo di stretta più aggressivo. Finora non ci sono segnali che indicano che tale scenario possa trasformarsi a breve nell’opzione più probabile.

Coraggio

Siamo arrivati al fine settimana dopo la pausa internazionale, per me significa solo una cosa: sale l’agitazione per il Manchester United. Se Ole vuole sopravvivere, i Red devono battere il Watford alla grande, e poi assicurarsi la qualificazione per la Champions League la prossima settimana. Potrebbe comunque non bastare, se sono vere le voci di malcontento nello spogliatoio. Io prenderei Luis Enrique o Zizou, ma spero che l’attuale direzione metta a posto le cose. Siamo a solo nove punti dal Chelsea, con ancora 28 partite da giocare. Potrebbe andare peggio, potrebbe essere il Leeds.

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