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Strategia Mensile

Investment strategy aprile: Uno sguardo oltre l’Occidente

  • 26 Aprile 2024 (10 min di lettura)
In primo piano
I recenti progressi della Cina dipendono molto dalla ripresa delle esportazioni. Ora che gli incentivi fiscali hanno raggiunto il limite, Pechino deve risolvere la crisi immobiliare che si protrae da tempo e sta pensando a un modello di crescita trainato dall’esterno.
Un approccio di questo tipo potrebbe però aggravare le tensioni con l’Occidente, in particolare in vista delle elezioni negli Stati Uniti.
A parte le rivalità con la Cina, le tensioni politiche che preoccupano gli investitori riguardano la situazione in Europa e in Medio Oriente.
Le prospettive per gli utili restano invece molto positive. Il consensus bottom-up sulla crescita dell’utile per azione nei prossimi 12 mesi è del 10% per l’indice MSCI World e dell’11% per l’S&P 500.

Scelte difficili per la Cina

Nonostante gli ultimi dati siano migliori del previsto, per cui sembra più probabile che il Paese centri l’obiettivo ufficiale di crescita del Pil del 5% nel 2024, l’economia cinese si trova ancora di fronte a imponenti sfide, mentre cerca un’alternativa al settore immobiliare come fonte duratura di espansione economica. L’esperienza che deriva da numerosi episodi di correzione del mercato immobiliare in altri Paesi, per esempio dopo la crisi subprime negli Stati Uniti o dopo la crisi del debito in alcuni Paesi periferici nell’Eurozona, ci porta a pensare che gli investimenti residenziali, come percentuale del Pil, arrancheranno per 5-10 anni.

Anche gli investimenti del governo nelle infrastrutture hanno probabilmente esaurito il loro corso. Il debito pubblico della Cina, ricalcolato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’anno scorso superava il 100% del Pil tenendo conto delle passività delle autorità locali che, negli ultimi anni, hanno sostenuto la maggior parte dell’onere dei piani di stimolo. Inoltre, avendo scampato allo shock inflazionistico globale, la Cina non ha beneficiato dell’effetto di ripresa che si manifesta quando il tasso di crescita del Pil nominale supera il tasso di interesse. Ciò ha gravato sul rapporto tra il debito pubblico e il Pil del Paese, che ora è superiore a quello degli Stati Uniti, in contrasto con il lieve calo registrato nella maggior parte dei Paesi del G7. La decisione del governo centrale di incrementare la spesa per le infrastrutture nel proprio bilancio anziché demandarla alle autorità locali alla fine dello scorso anno è stata una reazione prevedibile al deterioramento della situazione fiscale.

Venendo gradualmente meno gli stimoli fiscali è logico che ci sia la tentazione di fare maggiore affidamento sulle esportazioni per stimolare l’economia nel più lungo periodo. Il recente miglioramento della produzione industriale in Cina riflette gli ordini internazionali, con la ripresa del ciclo manifatturiero globale, mentre le vendite al dettaglio locali restano deludenti. La Cina sta attraversando una fase di deflazione, mentre praticamente tutti gli altri Paesi stanno ancora lottando contro le conseguenze dello shock inflazionistico globale. I prodotti cinesi si trovano dunque in una posizione piuttosto competitiva. Nel frattempo, le “nuove forze produttive di qualità” su cui si fonda la strategia di Pechino, che concentra gli investimenti su alcuni settori manifatturieri ad alto valore aggiunto ovvero quelli più esposti agli scambi internazionali, sono sostanzialmente un approccio trainato dall’esterno.

È una strategia che presenta, secondo noi, limiti evidenti. Sulla scorta delle dimensioni stesse delle esportazioni cinesi, per far crescere il rapporto tra esportazioni e Pil in modo da controbilanciare la crisi del mercato residenziale serve un ulteriore incremento della quota degli scambi globali, che non si verificherà se non a scapito di altri Paesi. Anche le regioni che finora non hanno criticato con veemenza l’ascesa della Cina negli scambi commerciali globali, in particolare l’UE, non vedono di buon occhio un ulteriore aumento della quota delle esportazioni mondiali del Paese, in particolare nei settori ad alto valore aggiunto, come l’industria automobilistica, che considerano strategica.

Eppure, le “nuove forze produttive di qualità” potrebbero essere vantaggiose per tutti se i proventi venissero incanalati verso l’espansione locale. Inoltre, l’attenzione per i settori innovativi dovrebbe far aumentare la produttività aggregata in Cina. L’incremento della produttività non sarà necessariamente impiegato per accrescere la competitività dei prodotti cinesi nei mercati internazionali. Potrebbe consentire un aumento dei salari reali, che farebbe accelerare la crescita dei consumi personali, anziché limitarsi a contenere i prezzi all’esportazione. Questa sarebbe una migliore strategia per sostenere la domanda locale, anziché i massicci stimoli fiscali, diretti o indiretti.

Secondo noi, un taglio dei tassi di interesse in Cina potrebbe agevolare una svolta strategica di questo tipo. Faciliterebbe inoltre gli investimenti necessari per migliorare la produttività, proteggendo nel contempo la situazione finanziaria delle aziende in modo da consentire alle imprese di aumentare i salari. Nel contempo, un calo dei tassi di interesse compenserebbe l’aumento dei costi di servizio del debito per cui si eviterebbe una stretta fiscale. Si potrebbe dunque sviluppare un sistema più ampio di protezioni contro i rischi che spingerebbe i consumatori a ridurre il risparmio. In tale scenario, il resto del mondo sarebbe maggiormente disposto a tollerare la debolezza della valuta cinese, poiché sarebbe semplicemente un effetto collaterale della politica monetaria espansiva diretta all’interno e non un intervento diretto sul cambio.

Resta però da vedere se questa versione della nuova strategia di crescita della Cina sarà accettabile per gli Stati Uniti. Donald Trump, in campagna elettorale, sta promuovendo dazi del 60% sui prodotti cinesi importati negli Stati Uniti (rispetto al già elevato 25% odierno). È solo uno dei fattori politici che potrebbe preoccupare gli investitori quest’anno.

Dinamiche geopolitiche: una preoccupazione giustificata

La continuazione del conflitto in Ucraina, insieme all’escalation delle tensioni in Medio Oriente, ha riportato le dinamiche geopolitiche al centro delle preoccupazioni degli investitori. Gli eventi dagli effetti dirompenti creano incertezza su diversi fronti e spesso anche forti oscillazioni dei prezzi sui mercati. Ciò potrebbe portare a reazioni politiche inaspettate, con conseguenze negative nel lungo periodo. Gli investitori spesso reagiscono all’incertezza riducendo il rischio, e ciò può produrre distorsioni nei prezzi del mercato e gravare sul rendimento degli investimenti.

Nella maggior parte dei casi non è possibile prevedere gli eventi geopolitici, né intervenire adeguatamente e con tempestività. Per i portafogli con una buona diversificazione, la migliore strategia è tenere duro durante le fasi di volatilità. Le brusche oscillazioni prodotte dall’avversione al rischio spesso non durano. Infatti, tipicamente la reazione iniziale è esagerata relativamente alla gravità dell’evento. Gli effetti spesso vengono contenuti dall’assenza di un collegamento con l’attività economica, o perché i mercati si ribilanciano con rapidità, oppure gli eventi accadono in aree geografiche che non sono fortemente integrate a livello globale.

Effetti concreti e incertezza

Con questo non vogliamo dire che il rischio geopolitico vada ignorato. Ci sono diverse buone ragioni per cui preoccuparsi quando tali dinamiche sono in grado di incidere sui prezzi globali, sulla domanda e, in ultima analisi, sul valore degli strumenti finanziari. Possono esserci effetti economici tangibili che incidono sui flussi di cassa e sulle valutazioni, oppure che alimentano l’incertezza che porta gli investitori a ridurre il rischio. Laddove possibile, gli investitori cercheranno di contenere le ripercussioni degli eventi geopolitici.

Se esaminiamo le prospettive dei mercati azionari globali, il rischio geopolitico è indubbiamente un fattore che potrebbe contenere il rendimento. Come per altri fattori, ci sono due canali principali attraverso i quali l’identificazione e la manifestazione dei rischi geopolitici possono incidere sui rendimenti azionari: il canale degli utili e il canale del premio per il rischio (ovvero il sentiment espresso come multipli PE). Nel 2023, per la maggior parte degli indici azionari, la crescita degli utili è stata nulla ma i PE sono saliti, per cui il rendimento complessivo è stato molto positivo. In altri termini, i premi per il rischio azionario sono scesi quando è stato evidente che gli Stati Uniti e altre grandi economie avevano evitato la recessione e i tassi di interesse erano al picco.

Le prospettive di utile per quest’anno sembrano migliori rispetto all’anno scorso. Il consensus bottom-up sulla crescita dell’utile per azione nei prossimi 12 mesi è del 10% per l’indice MSCI World, dell’11% per l’S&P 500 e del 6% per l’Euro Stoxx. La fiducia nelle prospettive di utile deriva dalla revisione al rialzo della crescita del Pil e dai dati ciclici, tra cui gli indici PMI e le esportazioni asiatiche, che segnalano una crescita globale generalizzata. Noi ci aspettiamo una crescita discreta del Pil nominale nelle principali economie, normalmente correlata all’espansione degli utili societari. Lo scenario macroeconomico attuale è caratterizzato da mercati del lavoro solidi, dalla spesa al consumo, da una situazione patrimoniale delle aziende robusta e dagli investimenti fissi in infrastrutture e tecnologia.

Sulla base delle prospettive macroeconomiche e degli utili previsti, i rendimenti azionari dovrebbero essere positivi anche quest’anno. I primi dati della stagione degli utili negli Stati Uniti convalidano tale previsione. Le valutazioni del mercato sono in linea con le prospettive positive, con PE costantemente al rialzo dallo scorso ottobre. Il rischio per le valutazioni, e in generale per il rendimento, deriva dal fatto che gli investitori si concentrano su avvenimenti che accrescono il grado di incertezza sugli sviluppi futuri e che alterano gli equilibri tra rendimenti positivi e negativi. Molti sono ovvi: la crescita è più debole pertanto l'aumento degli utili sarà deludente, ci sarà un altro shock sui tassi di interesse che farà aumentare le probabilità di un hard landing, oppure gli eventi geopolitici incideranno sulle catene di distribuzione e sulla domanda globale.

Il premio per il rischio azionario è sceso da quando i tassi di interesse hanno iniziato a salire. Il divario tra il rendimento degli utili per l’S&P 500 e il rendimento dei titoli del Tesoro decennali oggi è praticamente pari a zero. Al di fuori degli Stati Uniti, le valutazioni appaiono meno estreme e i PE sono vicino alle medie a lungo termine. Eppure i mercati sono vulnerabili in caso di rischi in grado di danneggiare la crescita globale e la redditività aziendale. Se le aspettative cambiassero a causa di eventi di rischio, allora gli investitori ridurrebbero la loro esposizione per l’incertezza sugli utili futuri, e i mercati azionari scenderebbero. Dato che lo scenario macroeconomico appare abbastanza robusto, gli investitori nel breve termine si concentrano sulle dinamiche geopolitiche.

Non tutti i rischi geopolitici sono uguali, né si manifestano con le stesse tempistiche. L’invasione russa in Ucraina e la successiva imposizione delle sanzioni contro la Russia sono avvenute rapidamente, con profondi sconvolgimenti sui mercati, e hanno prolungato lo shock inflazionistico scatenato dalle interruzioni delle catene di distribuzione durante la pandemia. Ciò ha poi contribuito all’aumento dei tassi di interesse e ha creato condizioni economiche quasi recessionistiche in parti d’Europa che hanno dovuto adeguarsi rapidamente alla riduzione delle forniture di energia. D’altra parte, l’attacco a Israele del 7 ottobre 2023 e la successiva reazione militare a Gaza hanno avuto solamente effetti moderati sui prezzi del petrolio e delle azioni globali. Con questo non intendiamo sminuire il significato politico o umano di tali avvenimenti, bensì riconoscerne l’impatto finora limitato sull’economia regionale e globale.

Anche il conflitto tra Russia e Ucraina ha scatenato reazioni a catena che sono di per sé un rischio geopolitico rilevante. Non solo il mercato europeo dell’energia ha dovuto adattarsi, ma sono emerse possibili implicazioni per la sicurezza alimentare e i prezzi degli alimentari in caso di interruzione delle esportazioni di grano dall’Ucraina. C’è poi la minaccia alla sicurezza per altri stati sovrani nella regione qualora la Russia avesse la meglio in Ucraina. Le conseguenze sarebbero globali poiché metterebbero in difficoltà la NATO, l’Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord, e farebbero incrementare la spesa per la difesa dei Paesi europei. Ci sarebbero conseguenze per la leadership a Occidente e le elezioni negli Stati Uniti: basti pensare all’acredine in seno al Congresso relativamente alla decisione di fornire più aiuti militari e finanziari all’Ucraina. Le tensioni geopolitiche potrebbero ampliarsi sulla scorta dello sviluppo delle forze antagonistiche contro il potere dell’Occidente.

Sono eventi che provocano la reazione dei mercati finanziari. In questo caso, un’avanzata delle forze russe in Ucraina aggraverebbe il rischio di crollo del Paese. È difficile raccomandare una strategia di investimento in grado di contenere gli effetti di un esito di questo tipo, ma è probabile che i mercati entrino in una fase di avversione al rischio. Le conseguenze sarebbero un rafforzamento del dollaro, il calo dei rendimenti obbligazionari negli Stati Uniti e la flessione dei mercati azionari. Potremmo inoltre assistere a un ampliamento degli spread sui titoli di Stato europei per via delle implicazioni dell’aumento della spesa pubblica per la sicurezza. La minaccia di un’escalation del conflitto inciderebbe sulle decisioni di spesa di consumatori e imprese, graverebbe sulla crescita economica e farebbe aumentare i premi per il rischio sugli strumenti finanziari.

Un’escalation del conflitto in Medio Oriente potrebbe influenzare il prezzo del petrolio, i flussi commerciali attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso, nonché aggravare la polarizzazione politica su scala globale e all’interno dei Paesi, con possibili disordini sociali. Tutto questo graverebbe sulla fiducia degli investitori e causerebbe oscillazioni del mercato dovute all’avversione al rischio.

Su questo tema ci sono anche considerazioni di lungo periodo. Negli ultimi anni i rapporti tra le democrazie occidentali e la Russia e la Cina si sono deteriorati. Di conseguenza, le politiche si sono fatte più protezionistiche con effetti sull’accesso al mercato, sui costi all’importazione e sulla destinazione degli investimenti diretti. Le catene di distribuzione stanno cambiando e ciò mette in difficoltà aziende che operano in diversi mercati. I Paesi vogliono fare maggiore affidamento sulle fonti interne di energia, alimentari e tecnologia nell’ambito della preoccupazione per la sicurezza in uno scenario sempre più avverso. In questo momento ciò avvantaggia chiaramente la tecnologia, per esempio con investimenti su vasta scala nei semiconduttori per ridurre la dipendenza da Taiwan come punto di congestione della catena di distribuzione globale. Per gli investitori azionari globali, ciò crea dei rischi per alcune aziende e delle opportunità per altre. Pertanto una gestione attiva diventa fondamentale per garantire che i portafogli siano in grado di sfruttare la crescita degli utili nelle regioni dove i rischi correlati alle dinamiche geopolitiche sul fronte degli investimenti, della politica e degli scambi commerciali, sono inferiori.

Nonostante tutto ciò, i mercati azionari tendono a salire nel medio termine. Le imprese si adattano ai nuovi rischi e gli investitori vanno alla ricerca di nuove opportunità. I portafogli azionari diversificati a gestione attiva, concentrati su una crescita di qualità degli utili nel lungo termine offrono agli investitori le migliori probabilità di rendimento, nonostante le minacce di un mondo che cambia.

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