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Outlook Annuale

Dove si fermerà l’inflazione?

  • 01 Dicembre 2022 (7 min di lettura)

Punti chiave

  • Nel 2022 è iniziata una nuova era per la politica monetaria. Sembra che il prezzo da pagare per riportare l’inflazione sotto controllo, dopo che avrà raggiunto il massimo livello a fine 2022, sarà una recessione causata dalla politica monetaria.
  • Per via dei tassi di interesse più alti, la politica fiscale si farà gradualmente meno accomodante. Negli Stati Uniti, dopo le elezioni di metà mandato si arriverà alla paralisi politica, mentre la politica fiscale in Europa introdurrà nuovi stimoli nel primo semestre del 2023 per contenere lo shock inflazionistico esterno, ma poi l’attivismo fiscale cesserà.
  • Per vent’anni, la politica monetaria e quella fiscale hanno nascosto il rallentamento della crescita potenziale. Serve un nuovo modello di crescita, ma persiste l’incertezza.

Il costo immediato della futura disinflazione

Il 2022 è stato caratterizzato dallo shock inflazionistico. Non tanto perché, erodendo il potere di acquisto e i margini aziendali, l’inflazione ha frenato consumi e investimenti (la spesa privata in realtà ha tenuto bene nei Paesi sviluppati, vista la situazione), bensì poiché ha contrassegnato la fine di un’era per la politica monetaria.

Non avendone riconosciuto i segnali, che inizialmente sono stati interpretati come un rialzo temporaneo dei prezzi alla riapertura dopo la pandemia ma che poi si sono trasformati in un’inflazione persistente, le principali banche centrali hanno alzato rapidamente i tassi come non accadeva dagli anni ‘90. La Federal Reserve (Fed) è passata rapidamente da una politica estremamente accomodante alla stretta in meno di un anno. In abbinamento al Quantitative Tightening, si è trattato della massima contrazione delle condizioni finanziarie dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009.

All’inizio, non tutte le banche centrali avrebbero dovuto seguire la Fed. Gli Stati Uniti dovevano affrontare il surriscaldamento dell’economia dopo gli stimoli fiscali eccessivi introdotti sul finire dell’amministrazione Trump e all’inizio della presidenza Biden, mentre la domanda molto alta nel mercato del lavoro doveva fare i conti con un calo del tasso di partecipazione. L’area euro è stata più cauta con gli aiuti fiscali durante la pandemia, per cui la partecipazione è in aumento e ora ha superato gli Stati Uniti nella fascia di popolazione tra i 15 e i 64 anni. Eppure la Banca centrale europea (Bce) talvolta ha imitato la Federal Reserve, per esempio con rialzi dei tassi di 75 punti base. Nell’Eurozona il tasso neutrale probabilmente si limiterà a sfiorare l’1-2% a dicembre 2022, ma è partito da un livello inferiore agli Stati Uniti, e secondo noi la soglia neutrale verrà superata nel 1° trimestre del 2023 (al 2,5%). Unitamente a una contrazione delle condizioni di credito per le banche, crediamo che la Bce abbia già portato le condizioni finanziarie in territorio restrittivo. L’inflazione nell’Eurozona è ancora trainata dalle dinamiche dell’offerta (in particolare dal prezzo del gas), che difficilmente possono essere condizionate dalla politica monetaria, per cui l’approccio della Bce si concentra esplicitamente sull’ancoraggio delle aspettative inflazionistiche. Tuttavia, a nostro giudizio, il nuovo orientamento favorevole ai rialzi dei tassi dipende in buona parte dalla svalutazione dell’euro.

In effetti, l’economia mondiale si sta adattando al rafforzamento del dollaro correlato alla politica della Federal Reserve (e anche questo ci ricorda gli anni ‘90). La Bce è una delle banche centrali che ne risentono di meno. Le banche centrali dei mercati emergenti hanno dovuto intervenire di più, e abbiamo assistito a rialzi cumulativi superiori ai 1.000 punti base in alcuni Paesi (Brasile, Ungheria). Non ci preoccupano molto i rischi sistemici nei Paesi emergenti, la loro situazione finanziaria è assai migliore oggi rispetto agli anni ’90, e questa è una differenza importante, tuttavia la portata della stretta monetaria graverà sulla domanda locale, in particolare quando la politica fiscale dovrà adattarsi all’aumento dei costi di rifinanziamento dei titoli di Stato (in particolare in Brasile). I Paesi che hanno deciso di non difendere la propria valuta e hanno invece tagliato i tassi ora si trovano di fronte a una dolorosa iperinflazione, come la Turchia.

La Cina rappresenta un’eccezione. Sebbene il tasso di cambio sia in parte sceso, Pechino ha potuto adottare una politica monetaria più accomodante a fronte di un’inflazione contenuta. Eppure le autorità cinesi sono riluttanti a intervenire, nel timore di aggravare i rischi per la stabilità finanziaria, e non sono ancora riuscite a mettere la parola fine alla politica “zero Covid” che nel 2023 potrebbe creare ancora qualche problema correlato alla pandemia. Il contributo della Cina alla crescita globale resterà, a nostro giudizio, limitato.

Ci troviamo dunque in una situazione che non vedevamo da decenni: un rallentamento dell’economia mondiale dovuto agli interventi di politica monetaria. L’intensità e la durata della stretta dipenderanno naturalmente dalla velocità della disinflazione all’epicentro del problema, ovvero l’economia statunitense. Nell’autunno del 2022 abbiamo rilevato qualche timido segnale di raffreddamento del mercato del lavoro che potrebbe portare a una decelerazione dei salari nel 2023, come vorrebbe la Federal Reserve. Il “picco inflazionistico” probabilmente è già stato raggiunto, per cui i rialzi dei tassi potrebbero essere meno rapidi, la distanza dal target e il rischio di nuovi squilibri sono però ancora alti per cui il “tasso terminale” non è ancora stato raggiunto (crediamo che arriverà al 5%). Questo significa che, visto il ritardo della trasmissione, la politica monetaria per tutto il 2023 resterà probabilmente più restrittiva rispetto al secondo semestre del 2022. Ciò si basa sulla convinzione che la Fed non intende tagliare i tassi con la stessa rapidità prevista dal mercato (secondo semestre del 2023); prima vorrà infatti assicurarsi di aver fermato l’inflazione. Il prezzo da pagare sarà una recessione negli Stati Uniti nei primi tre trimestri del 2023 che avrà ripercussioni sull’intera economia mondiale il prossimo anno.

Il ricordo degli errori del passato spesso condiziona gli interventi dei policymaker. Così come la stretta monetaria prematura degli anni ‘30 era l’errore che Ben Bernanke voleva evitare a tutti i costi dopo la crisi finanziaria del 2008/2009, questa volta Jerome Powell vuole probabilmente evitare gli errori fatti nel 1974. Contrariamente a quanto si crede comunemente, la Fed inizialmente reagì allo shock petrolifero del 1973 alzando rapidamente i tassi. La fatidica decisione arrivò alla fine del 1974 quando la banca centrale americana, preoccupata per il rapido incremento della disoccupazione, invertì la rotta, nonostante l’inflazione fosse ancora a doppia cifra. Tale decisione aprì la strada a un’impennata inflazionistica nella seconda metà degli anni ‘70, costringendo alla fine la Fed a un’imponente stretta nel 1980.

In un certo senso, ci troviamo di fronte all’immagine speculare dell’iperattivismo della politica monetaria degli ultimi 20 anni. Le banche centrali erano giunte alla conclusione che solamente facendo surriscaldare l’economia (ben oltre il potenziale) sarebbero riuscite a riportare l’inflazione entro il target rispetto alla nuova tendenza intorno allo zero. Oggi, sono giunte alla conclusione che solamente riportando la domanda al di sotto del livello già basso dell’offerta saranno in grado di riportare l’inflazione intorno al 2%. Solo con il sacrificio si possono ottenere grandi risultati.

 

Attivismo fiscale al capolinea

Mentre la politica monetaria segue gli stessi binari su entrambe le sponde dell’Atlantico, la politica fiscale ha iniziato ad andare in direzione diversa. Negli Stati Uniti, la Legge per la riduzione dell’inflazione (che in realtà è la Legge per la transizione verde) probabilmente sarà l’ultima grande impresa di Biden. La conquista della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti da parte dei Repubblicani alle elezioni di metà mandato porterà verosimilmente ad almeno due anni di paralisi politica. Forse è quello che serve oggi negli Stati Uniti: il tentativo della politica fiscale di compensare l’operato della Fed ha poco senso, vista la necessità di affrontare il surriscaldamento interno dell’economia. La situazione è assai diversa nell’Eurozona, dove i governi hanno introdotto una nuova serie di stimoli fiscali per contenere gli effetti dei prezzi elevati dell’energia sul reddito delle famiglie e sui margini delle imprese, mentre prosegue la guerra in Ucraina.

In Europa probabilmente la politica fiscale e monetaria sono in parte complementari. Gli aiuti temporanei forniti dal governo alle famiglie forse conterranno le pressioni sui salari, riducendo il rischio che la regione entri in una spirale prezzi-salari che costringerebbe la BCE a una stretta ancor più consistente. Verso la seconda metà del 2023 potrebbe però emergere un conflitto tra le emissioni elevate di titoli di Stato e la probabile decisione della BCE di ridurre gradualmente il reinvestimento delle obbligazioni acquistate durante il Quantitative Easing. Anche qualora il sistema di sorveglianza fiscale europeo consentisse il prolungamento dell’esenzione dalle regole di riduzione del deficit, crediamo che le leggi finanziarie per il 2024 (che verranno discusse a partire dall’estate del 2023) segneranno la fine della prodigalità fiscale.

 

In cerca di un modello di crescita

Negli ultimi vent’anni gli stimoli monetari e fiscali hanno spesso nascosto la mancanza di dinamismo delle economie sviluppate che, oltre ai problemi demografici, dovevano affrontare un rallentamento della produttività. In alcuni Paesi, e certamente negli Stati Uniti, il calo di partecipazione nel mercato del lavoro è un altro fattore di debolezza che incide sulla crescita del Pil. Ora che gli aiuti stanno rallentando, emergeranno i problemi strutturali.

Da questo punto di vista è interessante l’esperienza del Regno Unito. Per quanto il piano di Liz Truss avesse difetti sostanziali (tagli di tasse non finanziati abbinati alla vaga promessa di riforme fiscali), se non altro la sua amministrazione si proponeva di frenare il deterioramento della crescita nel Regno Unito. La svolta fiscale del governo di Rishi Sunak naturalmente è benvenuta ai fini della stabilità finanziaria, tuttavia manca un piano per far ripartire l’economia.

Nell’elenco delle sfide macro da affrontare, dobbiamo probabilmente aggiungere la greenflation, infatti la necessaria lotta contro i cambiamenti climatici costringe all’adozione di tecnologie più pulite ma generalmente più costose, mentre anche altre regioni oltre all’Unione Europea (Ue) adotteranno sistemi di scambio delle quote di emissione. Un altro rischio è la “deglobalizzazione”, soprattutto nei Paesi come la Germania che hanno puntato su un modello di crescita fortemente orientato all’estero. Gli Stati Uniti si trovano probabilmente in una situazione migliore rispetto all’Ue. Le dinamiche demografiche, seppur in deterioramento, sono meno problematiche e il Paese può contare, se non altro, sulla produzione interna di energia a buon mercato. L’Ue durante la pandemia è riuscita a realizzare la sua strategia di crescita di lungo periodo rompendo il tabù della mutualizzazione del debito con il finanziamento dei piani “Next Generation”. Troviamo preoccupante il fatto che gli stati membri non siano riusciti a reagire alle ripercussioni della guerra in Ucraina con lo stesso spirito di cooperazione.

Per quanto siamo fiduciosi che entro la metà del 2023 l’economia mondiale si riprenderà, vogliamo mettere in guardia da eccessivi entusiasmi. Al di là della ripresa ciclica, molti problemi strutturali resteranno senza risposta. 

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