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Dobbiamo dire addio al lavoro da remoto?

INTRODUZIONE
Un numero crescente di aziende ha dichiarato guerra al lavoro da remoto. Lo dice l’Economist, includendo nella lista colossi del calibro di Amazon, Goldman Sachs e PwC, che hanno aumentato il numero di giorni “in presenza” in ufficio richiesti ai propri lavoratori. Ma è davvero una nuova tendenza?

Un articolo dell’Economist circolato in questi giorni sui social media sembrerebbe indicare che dopo alcuni anni di flessibilità del lavoro, alimentata da investimenti in tecnologia da parte delle aziende, si stia ora assistendo a un’inversione ad U nel senso che alcune grandi corporation americane starebbero imponendo un aumento dei giorni di presenza in ufficio ai propri impiegati. In effetti, la decisione di Amazon, che ha portato da tre a cinque i giorni di presenza, di fatto liquidando la modalità “lavoro da casa”, fa notizia sia per le dimensioni del gruppo e sia perché pare abbastanza estrema in un contesto in cui il “lavoro ibrido” sembra ormai comunemente accettato dalla maggior parte delle aziende.

Ci sono dei precendenti nel settore della finanza, con Goldman Sachs e Citigroup che hanno imposto al personale di tornare in modalità ufficio tutta la settimana. A settembre, PwC ha annunciato che la presenza in ufficio sarà richiesta per tre giorni alla settimana a partire da gennaio 2025.

Ritorneremo quindi a lavorare come prima del Covid? Prima di parlare di tendenza, bisognerebbe considerare che le aziende sopra citate, per quanto importanti e per quanto probabili “trendsetter”, non costituiscono l’intero universo del mondo aziendale. Ci sono una miriade di aziende che hanno investito in tecnologia per permettere il lavoro da remoto (quando non era possibile recarsi in ufficio) e che hanno risparmiato cancellando costosi contratti di locazione per l’ufficio. Ce ne sono molte altre che non intendono rinunciare alla modalità “lavoro ibrido”, vale a dire parte da remoto e parte da ufficio, che non solo è considerata da molti irrinunciabile per non perdere la propria forza lavoro, ma anche per i vantaggi che ne derivano a livello ambientale (meno spostamenti, meno traffico, meno emissioni di carbonio).


Cosa dicono i numeri

Trovare statistiche sul lavoro da remoto non è impresa facile. Per la maggior parte si tratta di numeri ricavati da sondaggi. Questi sono stati numerosi, dalla pandemia in poi, tuttavia vanno presi con una certa cautela. Nel senso che le risposte a volte sono molto relative. Si è chiesto spesso, per esempio, se le aziende trovano che il lavoro “da remoto” sia più o meno produttivo del tradizionale lavoro da ufficio. Qui le risposte variano a seconda della situazione in cui si trovano le aziende stesse. Quelle che hanno abbracciato completamente il lavoro da casa (e che hanno risparmiato sull’affitto dell’ufficio) restano convinte che lavorare da remoto sia la forma di lavoro più produttiva, ma alla stessa domanda le aziende che praticano il lavoro ibrido sembrano più inclini a considerare sia i pro che i contro del lavoro da remoto, mentre le aziende che non permettono il lavoro a distanza lo considerano senz’altro improduttivo rispetto al lavoro in ufficio. Insomma, sembra tutto relativo a chi viene fatta la domanda.

Secondo uno studio di Owl labs, nel mondo il 16% delle aziende sono “fully remote”, vale a dire operano completamente da remoto. Lo stesso studio rileva che circa il 62% dei lavoratori tra i 22 e i 65 anni afferma di lavorare da remoto almeno occasionalmente. Inoltre, globalmente il 44% delle aziende non permette nessun tipo di lavoro da remoto.


Cosa potrebbe spiegare certe inversioni di policy

Tornando alle grandi corporation americane che stanno mutando la working policy, decisioni come quella di Amazon sono considerate impopolari. Una simile imposizione potrebbe nascondere il desiderio di sbarazzarsi di forza lavoro in esubero. Per aziende che hanno assunto troppi lavoratori durante la pandemia potrebbe essere un modo per spingerli alle dimissioni senza pagare incentivi.

Un’altra spiegazione potrebbe essere trovata nell’evoluzione del mercato del lavoro. Subito dopo il Covid e fino ad oggi abbiamo avuto un mercato del lavoro ristretto, caratterizzato da un basso tasso di disoccupazione e dalla scarsità di lavoratori rispetto ai posti di lavoro. Insomma, un mercato in cui per le aziende era difficile colmare posti di lavoro e per i lavoratori era più facile far valere le proprie condizioni. I datori di lavoro hanno utilizzato il lavoro flessibile e altre opzioni di lavoro “ibrido” allo stesso modo degli aumenti salariali, per attrarre e trattenere la forza lavoro. Ma l’economia sta diventando più incerta, potremmo transitare verso un mercato del lavoro in cui i lavoratori hanno meno potere contrattuale. Soprattutto dopo i massicci investimenti in intelligenza artificiale (IA) molte aziende potrebbero mirare a un futuro con più automazione.


La view dei CEO

Niente più lavoro da remoto nel giro di tre anni sembrerebbe essere la view di maggior consenso tra i CEO, secondo l’ultimo rapporto KPMG che ha intervistato 1300 amministratori delegati nel mondo. Il quadro che emerge circa la modalità di lavoro immaginata per il prossimo futuro mostra il desiderio da parte dell’83% dei CEO intervistati di un completo ritorno alla maniera di lavorare pre-Covid entro i prossimi tre anni, vale a dire in ufficio cinque giorni alla settimana. Inoltre, l’87% esprime la volontà di legare premi finanziari e promozioni a pratiche lavorative incentrate su un ritorno in ufficio. 

Come si concilia questo irrigidimento da parte dei CEO (più i maschi che le femmine) sul lavoro da remoto con una pratica ormai largamente diffusa (quella del lavoro ibrido) e un costo della vita in continuo aumento?

Ancora una volta, sarà forse un cambiamento nel mercato del lavoro, per esempio una recessione con il conseguente crollo dell’occupazione, oppure l’adozione diffusa dell’IA con conseguenze sulla forza lavoro a dettare il passo in una direzione o nell’altra.


Maggior scelta sull’orario di lavoro

Tornare indietro potrebbe rimanere un desiderio (almeno per i capi azienda). Di fatto, la pandemia ha innescato tendenze che difficilmente potranno essere soppresse. In certi casi le aziende avevano avviato il lavoro flessibile ben prima della pandemia (per esempio la rotazione dei desk, “hot desking” per risparmiare costi sull’ufficio riducendo lo spazio).

Basti poi pensare a quante forme di lavoro flessibile si sono diffuse negli ultimi anni.

Fonte: Compressed and Flexible Working, Daddylife

Mentre il lavoro da remoto ormai è ampiamente conosciuto, esistono altre forme di flessibilità, come il job-share (due persone si suddividono l’orario di lavoro in modo che per il datore di lavoro non cambia nulla e i lavoratori hanno la possibilità di lavorare part-time) o le ore annualizzate (spetta al lavoratore gestire nel corso dell’anno le sue ore di lavoro).

Un’opzione popolare per i lavoratori che hanno figli piccoli è il flexi-time: l’idea è dare al lavoratore maggiore indipendenza nella scelta dell’orario di inizio o fine del lavoro.

Nel Regno Unito esiste un progetto pilota, in fase sperimentale, nel corso del quale si cerca di dare ai lavoratori britannici una maggiore libertà di scelta circa le ore lavorative. Si tratta di una sperimentazione (sulla base di ricerche effettuate in università) sulla concentrazione dell’orario di lavoro in quattro giorni invece che cinque. Inoltre, i datori di lavoro, nell’ambito dello stesso progetto, esploreranno orari flessibili per l’inizio e per la fine della giornata lavorativa. Insomma, anche la giornata lavorativa “9:00 – 17:00”, come la settimana in ufficio “5/7” potrebbe diventare un cimelio del nostro passato. 

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