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Strategia Mensile

Una nuova direzione per la politica monetaria

  • 20 Ottobre 2021 (10 min di lettura)

In primo piano

  • Sebbene i segnali di una nuova impennata dell’inflazione siano pochi, le banche centrali delle economie avanzate stanno adottando una politica meno accomodante. Il mercato è in allerta.
  • Se l’inflazione spingerà le banche centrali verso politiche meno accomodanti, i premi per il rischio saliranno.
  • Per l’azionario, i fondamentali restano però positivi.

 

Un piano ben riuscito…

All’inizio del 2021, la probabile traiettoria della politica monetaria nelle economie avanzate sembrava chiarissima. La pandemia aveva creato un ampio divario produttivo che sarebbe stato assorbito col tempo, con una pressione al ribasso sulle dinamiche dei prezzi, che giustificava l’adozione di una politica straordinariamente accomodante. Negli Stati Uniti la portata degli stimoli fiscali, dopo la vittoria dei Democratici, è stata sorprendentemente ampia e ha spinto rapidamente l’economia verso il surriscaldamento. La Federal Reserve ha però specificato che avrebbe tollerato l’inflazione oltre il target per un po’. La Banca centrale europea (BCE) ha adottato una versione meno elaborata del target medio dell’inflazione, ma in ogni caso l’economia dell’Eurozona si trovava così lontano dal pieno recupero che sembrava un intervento eccessivo. Con la riapertura dell’economia l’inflazione sarebbe salita per un po’, ma solo temporaneamente, e le banche centrali si sarebbero ritrovate di nuovo di fronte all’incapacità di mantenere il target inflazionistico del 2%.

Quest’approccio gentile non ha funzionato perché si sono susseguiti rapidamente diversi shock di natura esogena che stanno prolungando i rialzi dei prezzi al consumo. La carenza globale di microchip difficilmente si risolverà prima della metà del prossimo anno. I trasporti marittimi vengono rallentati dalla capacità limitata dei porti. I prezzi dell’energia sono in costante ascesa.

In linea di principio, questi fattori non dovrebbero mettere a repentaglio i piani delle banche centrali. Anche quando una crisi inflazionistica determinata dall’offerta dura più a lungo del solito, normalmente si risolve da sola, essendo recessiva per natura. Queste fasi riducono il potere di acquisto dei consumatori e, in ultima analisi, frenano i consumi al punto da incidere anche sulle dinamiche dei prezzi. Possono però presentarsi due problemi. Primo, durante la pandemia i consumatori hanno accumulato risparmi. Possono pertanto continuare a spendere più a lungo del solito, nonostante l’erosione del loro potere di acquisto, e questo può far posticipare la reazione della domanda. Secondo, possono presentarsi effetti secondari, i salari possono reagire agli shock dei prezzi, trasformando un fenomeno transitorio in un rialzo dell’inflazione che si autoalimenta.

Non ci sono segnali che indicano che questi due fenomeni siano in corso. Vero è che i risparmi sono aumentati molto, ma in modo non paritario. La liquidità a disposizione di chi si trova nelle fasce di reddito più basse è migliorata meno rispetto ad altre, e il comportamento di spesa di questa fascia della popolazione è fondamentale per via della propensione superiore alla media a consumare il proprio reddito. I segnali di accelerazione dei salari negli Stati Uniti potrebbero essere il riflesso di qualche “frizione” correlata alla riapertura del mercato del lavoro. Questi segnali sono del tutto assenti in Europa. In Europa assumere è diventato più difficile, ma è una situazione che è esistita per anni senza provocare un’accelerazione significativa dei salari. La crescita globale si trova di fronte a ostacoli di rilievo. Per quanto ci aspettiamo effetti positivi dall’allentamento politico, la Cina sta frenando bruscamente. Negli Stati Uniti, le difficoltà incontrate dall’amministrazione Biden per portare avanti l’ambizioso piano fiscale potrebbero raffreddare la domanda il prossimo anno.

C’è comunque un cambio di tendenza che si evince anche dalle comunicazioni delle banche centrali. Mentre la Fed continua a ritenere che l’attuale impennata dell’inflazione sia transitoria, metà dei membri del Federal Open Market Committee (FOMC) ora crede che il rialzo dei tassi potrebbe avvenire già nel 2022. Inoltre, dalle dichiarazioni di Jerome Powell sembra che il tapering avverrà più rapidamente (sei mesi) rispetto a quanto previsto solo pochi mesi fa. La Bank of England, che aveva preannunciato una rapida chiusura del QE quest’anno, sembra pronta ad alzare i tassi già a dicembre. L’Eurozona è indietro rispetto agli Stati Uniti nel percorso di ripresa e non deve affrontare le gravi ripercussioni della Brexit come il Regno Unito. La BCE ha più tempo. Anche se un rialzo dei tassi è probabilmente ancora molto lontano, anche nell’Area Euro gli stimoli monetari stanno per ridursi, ci aspettiamo che la BCE annunci a dicembre la fine del piano di acquisto d’emergenza per la pandemia (PEPP) a marzo 2022, e la probabile ritaratura del piano di acquisto di titoli (APP) ridurrà verosimilmente la portata degli aiuti.

Il nuovo orientamento delle banche centrali non è solo una reazione all’aumento dell’inflazione. A settembre ci ha stupito che i membri dell’FOMC abbiano rivisto al rialzo le previsioni sui tassi, nonostante le proiezioni sull’inflazione della Fed fossero pressoché invariate. Le banche centrali sembrano un po’ stanche delle politiche accomodanti, dopo che anni di interventi non convenzionali hanno alimentato le preoccupazioni per la stabilità finanziaria.

Noi non crediamo che la svolta sarà marcata. Nel 2022 gli effetti di base che hanno fatto salire l’inflazione su base annua nel 2021 invertiranno la tendenza, e le banche centrali probabilmente sanno che, se cercassero di affrontare uno shock inflazionistico provocato dall’offerta attraverso la politica monetaria, il livello di contrazione della domanda potrebbe risultare inaccettabile. Continuiamo dunque a prevedere che il primo rialzo dei tassi da parte della Fed avvenga nel 2023, non nel 2022. Ma, per il momento, il mercato si aspetta un rialzo dei tassi d’interesse prima del previsto.

 

Premi per il rischio in aumento

È stato un buon anno per i mercati. I portafogli che hanno privilegiato azioni, inflazione e obbligazioni short duration hanno fatto bene, in linea con la crescita del Pil nominale in molte economie e la previsione di una nuova direzione di politica monetaria. Per gli indici azionari come l’S&P500 e l’Eurostoxx, il rendimento complessivo ad oggi è stato quasi il doppio rispetto alla media a lungo termine e nel quartile più alto in termini di rendimento annuale negli ultimi 30 anni. L’andamento è stato opposto per gli strumenti privi di rischio, per esempio l’indice dei titoli del Tesoro ha perso il 2,8% finora quest’anno, un rendimento assai inferiore alla media trentennale del 5,4%. I fattori alla base di questo andamento sono stati gli utili, l’inflazione e la variazione dei premi a termine per i tassi di interesse. Tutti e tre continueranno a essere importanti al fine di determinare l’andamento del mercato nei prossimi mesi. Il rallentamento della crescita degli utili, l’aumento dell’inflazione e il rialzo dei tassi sono le sfide che chi si occupa di asset allocation dovrà affrontare in vista del 2022.

Lo scenario peggiore che appare più probabile per i mercati dipende dal desiderio di normalizzazione delle banche centrali. Se i segnali inflazionistici bastassero ad accelerare tale processo, la conseguenza potrebbe essere un aumento dei premi per il rischio per diverse asset class. Intravediamo già qualche spaccatura. Esaminiamo le prospettive degli utili nei mercati azionari. Gli analisti appaiono meno entusiasti relativamente alle stime di utile. Sia negli Stati Uniti che in Europa, il numero di revisioni al ribasso delle stime sull’utile per azione per i prossimi dodici mesi è aumentato rapidamente nelle recenti settimane. Per chiarezza, precisiamo che le prospettive di utile restano positive, ma sono meno positive che all’inizio del 2021. I problemi sul fronte dell’offerta incideranno sulle vendite, e potrebbe emergere qualche previsione negativa durante la stagione delle trimestrali. Persistono comunque aree solide, per esempio energia e finanziari, mentre i margini potrebbero essere favoriti da un miglioramento del potere di determinazione dei prezzi delle imprese. Il messaggio che ci ha lanciato il settore finanziario statunitense con la pubblicazione degli utili del 3° trimestre è positivo, e questo dovrebbe scoraggiare una visione pessimistica dei fondamentali per credito e azioni.

I premi a termine potrebbero salire ancora, man mano che l’orientamento meno accomodante delle banche centrali si rifletterà nelle aspettative sui tassi. Finora i mercati non stanno scontando una stretta monetaria di ampia portata nel 2022, a parte l’eccezione del Regno Unito. Tuttavia, il rischio che venga scontata un’accelerazione del ciclo di stretta è più probabile di un nuovo calo dei tassi. A un certo punto la situazione si autoregola: il rialzo dei tassi farà diminuire le aspettative di crescita e di inflazione abbastanza da consentire la stabilizzazione e poi la flessione degli yield obbligazionari a lungo termine. Ma non è ancora giunto il momento, soprattutto se l’inflazione resta alta e la crescita in linea con le stime correnti.

Per prudenza è meglio stare alla larga dalle obbligazioni a lunga scadenza finché le aspettative inflazionistiche e sui tassi sono al rialzo. Sulla base del divario storico tra il livello degli yield a lungo termine e la crescita del Pil nominale, potremmo ipotizzare un aumento degli yield anche qualora la crescita nominale dovesse rallentare nel 2022. Ciò che non sappiamo, ex ante, è a quale livello gli yield inciderebbero sulla crescita reale. Nel 2018 gli yield sui titoli del Tesoro hanno raggiunto il 3,25%, ma con un diverso orientamento della crescita e una spinta dalla Fed. Insomma, c’è ancora molta strada da fare per arrivare a questo punto. Le obbligazioni indicizzate all’inflazione, a tasso variabile e a breve scadenza ci sembrano più interessanti in questo momento rispetto a quelle a più lunga scadenza, comprese quelle corporate.

Le azioni hanno tenuto bene finora rispetto all’inflazione. Resta da vedere se i mercati sapranno resistere al rialzo dei tassi di interesse. I rendimenti azionari globali furono negativi nel 2018, ma positivi nei due anni precedenti quando la Federal Reserve stava alzando i tassi. Questa volta potremmo assistere a un andamento simile. I rischi di una correzione dei mercati sembrano però maggiori rispetto all’ultimo periodo. Sembra che il ribilanciamento dell’economia globale proseguirà, e l’incertezza correlata dovrebbe far alzare i premi per il rischio sugli strumenti finanziari. È già accaduto con la compensazione dell’inflazione negli yield obbligazionari, e sembra che stia accadendo ai premi a termine e al rischio di credito, e a un certo punto anche i premi per il rischio azionario potrebbero salire.

Le previsioni di una correzione del mercato azionario sono normali, ma solitamente i periodi prolungati di rendimenti azionari negativi coincidono con una recessione oppure uno shock esterno. In assenza di tali sviluppi, una correzione dei prezzi dovrebbe rappresentare un’opportunità di acquisto. Noi ci aspettiamo che la crescita globale resti robusta nel 2022 e ciò dovrebbe consentire a famiglie e imprese (la cui situazione patrimoniale resta estremamente solida) di affrontare al meglio il processo di normalizzazione della politica monetaria. La creazione di posti di lavoro e la ricostituzione delle scorte sosterranno la domanda, delineando uno scenario positivo per i mercati azionari. È dunque possibile che gli strumenti che hanno riportato buone performance, in termini di asset allocation, continueranno a farlo. I mercati stanno ricalibrando le aspettative sul fronte dei tassi di interesse, a fronte del rialzo dell’inflazione e dell’orientamento meno accomodante delle banche centrali. C’è il rischio di una reazione negativa agli interventi politici, ma è troppo presto per dichiarare la fine della lunga fase rialzista del mercato.

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